Innanzitutto vi anticipo che il titolo è fuorviante. Una canzone si scrive, difficilmente si crea.
Chi lo fa di mestiere ha elaborato delle tecniche personali perché magari obbligato dall’editore e deve sottostare a delle scadenze. Chi lo fa per passione crede che sia per vocazione. In realtà una canzone si scrive per necessità. Questa ultima definizione mette d’accordo tutti, sia che sia l’editore a chiederlo, sia che sia tu a volerlo fare, la verità è che è una necessità. Se fai parte di una certa corrente di pensiero magari avrai la tendenza a denunciare, se invece sei più affezionato ai follower lo farai per puro spirito di continuità.
Lo ribadisco, si scrive per necessità.
Chi lo fa di mestiere è assuefatto a determinate logiche dettate dal mercato. Una canzone che parla d'amore con una sequenza di quattro accordi ha più possibilità di essere ascoltata dal pubblico giovanile che è l’unico rimasto a spendere quattro soldi per comprare un brano. Gli altri, trentenni ed oltre saranno più soggetti a fare critiche, a mettere a fuoco quanto si sia andati fuori tema oppure si sia scivolati nella retorica, avranno comunque qualcosa da ridire.
Un giovane no, spesso non ha cultura musicale sufficiente, ha probabilmente ascoltato come apice di qualità “assorbita” Achille Lauro e tenderà a stupirsi di chiunque parli di eventi atmosferici come sentimenti o di quanto il proprio amore sia “grande” come il mare. Per cui se devi vendere devi parlare di brufoli, di “lui ama me ma ha un’altra”, “la prima volta non mi è piaciuto ma lo amavo ma poi ho capito di non aver mai amato prima di conoscere te”.
Scusate, mi sono lasciato prendere la mano.
Analizziamo innanzitutto i dati tecnici.
Per scrivere una canzone devi avere un tema da sviluppare.
L’amore è principe su tutti, soprattutto se si parla di amori sfigati. Poi segue a ruota il malessere giovanile, il “non ci capite”, il trovare un proprio posto, le evasioni, le prime scoperte, i primi amori… ecco, ci risiamo. L'amore.
Poi bisogna fare una canzone che parli di chi non c’è più. Chi non ha perso qualcuno?
E chi non è stato rifiutato? Ok, stiamo parlando ancora di amore.
Che poi ognuno ha una propria definizione di amore e se lo chiedete a diverse persone vi renderete conto che ognuno di noi ha una definizione personale di amore. Chi per il partner, chi per gli animali, chi per l'arte ecc. Ma torniamo ai dati tecnici. Se scrivi un brano che ha come intro (l’incipit, l’inizio) gli stessi quattro accordi che compongono la strofa e il ritornello, sei moderno.
Se scrivi qualcosa di più articolato e che comprende una modulazione (un cambio di tonalità: la tonalità è l’appartenenza della melodia alla medesima scala, il “motivo” musicale) allora sei già datato.
Se scrivi un pezzo che superi i sette accordi allora sarà definito jazz a prescindere (se non lo capisci è jazz).
Poi devi decidere se rispettare la metrica.
Attualmente una canzone deve avere una intro, una strofa, una seconda strofa, un ritornello, una terza strofa, uno special, un ulteriore ritornello raddoppiato per poi finire con un outro, una finale.
Oppure inizi direttamente con il ritornello che hai creato a tavolino perché fin troppo orecchiabile, metti una strofa fatiscente e poi dodici ritornelli che porteranno alla finale della “radio edit” ovvero l’edizione per le radio che va in onda sulle maggiori radio nazionali. Però quello avviene solo se fai parte della cordata giusta o hai soldi a sufficienza, altrimenti dovrai dichiararti “indie” che in realtà vuol dire che non hai soldi e che ti produci da solo, con amici e con l’immancabile “cugino”, quindi "indipendente".
Rimane poi la stesura del testo del brano.
Se hai una terminologia aulica sei decisamente datato. Non “ti amo” ma “mi piaci”. Non “mi manchi” ma “fa male”. Non “ti vorrei” ma “mi fai impazzire”. In effetti, abbiamo educato i giovani a sentirsi liberi per poi farli sentire in colpa se danno voce ai minimi istinti ma sarà meglio parlarne in separata sede, in separato articolo. Sull’ipocrisia del finto perbenismo imperante ho sicuramente predecessori più illustri.
Torniamo all’aspetto tecnico. Ok, siamo tutti artisti, ma la musica chi la fa nei dischi?
Ci sono i “producer”, una nuova schiera di personaggi che hanno più o meno dimestichezza con i software musicali (DAW) che producono decine di “backing track”, ovvero basi su cui poi l’avventato “autore” di turno scriverà testo e melodia. Poi ci sono i musicisti, quelli che si chiedono se un “secondo, quinto, primo” (una successione armonica) sia una reale modulazione (cambio di tonalità) oppure se è preferibile lasciare la dominante (accordo che tende a risolvere su un altro chiamato “tonale”) magari sprovvista di settima (altro intervallo che anticipa la terza che da il “modo” all’accordo successivo, ovvero decide se è “maggiore” o “minore”). Questi ultimi, i musicisti, ultimamente vedono assottigliarsi le commesse a fronte di una sempre crescente schiera di “producer” che lavorerebbe anche pagando.
Scusate, ho dimenticato di specificare che chi scrive il testo è un “autore” e chi scrive la musica un “compositore”. Infine ci sono gli “arrangiatori”, coloro che decidono che carattere deve avere l’accompagnamento, la base, e che in teoria scrivono tutto per fare in modo che i musicisti sappiano ben interpretare le loro intenzioni. Quasi sempre in realtà è un singolo individuo che a suon di VST e AU (suoni campionati ma non reali) realizza la base di tutta la canzone.
Ok, vi starete chiedendo allora dove stia l’Arte in tutto questo.
La risposta (la mia almeno) è questa:
L’Arte è l’essere umano in tutte le sue manifestazioni, elementari o elevate che siano. Tutte le volte che un essere umano tenta di comunicare sentimenti e ideali al prossimo sta esprimendo la massima Arte a lui concessa: la condivisione.
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