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Il ritorno dei Cure


Ogni volta che una band del calibro dei "The Cure" pubblica un nuovo lavoro ci si trova davanti al dubbio di cosa aspettarsi, sarà un bel disco?, un capolavoro? o, piuttosto, come spesso accade ai mostri sacri, un album anonimo infarcito di autocelebrazione e richiami ai fasti passati?

L'attesa è durata sedici anni, ma ne è valsa la pena!


"Songs of a lost world" è un disco riuscitissimo, un disco di quelli che ci fanno riappacificare con la voglia di premere il tasto play, o di posizionare la puntina, un disco di quelli che ascolti dall'inizio alla fine senza mai nemmeno prendere in considerazione l'idea di saltare un brano.



"Songs of the lost world" è un disco che, pur parlandone, esce da quelli che sono i canoni del tempo, sembra provenire da un altro pianeta, non strizza l'occhio né alle regole dello streaming né a quelle radiofoniche. La copertina stessa raffigura Bagatelle, una scultura di Pirnat che ricorda il famosissimo Volto su Marte che la NASA pubblicò nel 1976.

Le atmosfere sono eteree e sognanti ed il cantato di Robert Smith ha ancora la capacità di condurci in un mondo di angosce, fallimenti e disincanti come se fossero la cosa più normale del mondo, è come se riuscisse, con quei suoi capelli arruffati e quel rossetto sbavato, a farci accettare col sorriso la più brutta delle notizie. La sua espressività è il momento esatto in cui ci portiamo alla bocca un po' di miele dopo aver morsicato una fetta di limone.


"Songs of a lost world" è un disco da ascoltare più e più volte per essere metabolizzato, è un disco che andrebbe ascoltato in solitudine, in una stanza con arredi interamente in legno sorseggiando un whisky da meditazione e, magari, tenendo un sigaro tra le dita...

La solitudine, il vero legno, la meditazione, il fumo lento... Tutte cose che sono ormai fuori dal nostro tempo.

Non abbiamo tempo per pensare, dobbiamo fare...

Non siamo in grado di rimanere soli, non sia mai, meglio rifugiarsi sui social dove siamo comunque soli ma possiamo fingere di non esserlo...

Non si può far nulla con lentezza, siamo quelli del tutto e subito ma, per fortuna, i Cure se ne fottono e, in un'epoca dove le canzoni sono fatte per TikTok e Instagram e non superano i tre minuti Robert Smith e soci ci regalano brani dove la sua voce entra dopo oltre tre minuti di intro strumentale scavando talmente tanto nel suo "Io" da riuscire ad entrare nel nostro.


I brani

Il disco si apre con "Alone", brano sul senso di solitudine che, dopo tre minuti strumentali fatti di chitarre synth e batteria ci regala le prime parole del testo, “This is the end of every song that we sing”, quasi un testamento artistico... Si prosegue con "And nothing is forever", brano nel quale il dolore per aver disatteso una promessa fatta diventa quasi uno spiraglio di luce immerso tra archi e tastiere.

Il terzo pezzo è "A fragile thing", brano più duro dei precedenti, che ci mette di fronte alla difficoltà di capire che l'amore, pur essendo il sentimento che ci rende più forti è irrimediabilmente lo stesso che ci rende fragili.

Arriva "Warsong", parte in maniera quasi doom, con un organo, per poi arrivare ad esplodere tra chitarre distorte e batteria che segnano il passaggio da una guerra intima a quelle vere e proprie in una continua sensazione di disagio che prosegue con "Drone:Nodrone", brano nato dal fastidio provato da Smith nel vedere invasa la propria privacy da un drone che volava all'interno della sua proprietà.

Con "I can never say goodbye" si ritorna al dolore, questa volta ancor più personale, dettato dalla scomparsa del fratello del frontman, e le chitarre rimangono leggermente in secondo piano.

"All I ever am" è uno di quei brani che dovrebbero farti sentir bene, con melodie rilassanti, ma suonato col classico stile happysad di cui i Cure sono maestri.

La chiusura del LP spetta a "Endsong", suite da dieci minuti (di cui cinque strumentali) all'interno della quale Robert Smith guarda l'immutabilità della Luna rispetto al fatto che, nel tempo, per lui ( e per noi) tutto è cambiato...

"Left alone with nothing at the end of every song

Left alone with nothing at the end of every song

Left alone with nothing, nothing

Nothing

Nothing

Nothing"

Questa è l'ultima frase del disco, un chiaro richiamo alla prima, la perfetta chiusura di un cerchio che, al suo interno, eleva alla massima potenza il concetto di malinconia.


"Songs of the lost world" è un disco davvero prezioso.


Ascoltate



1 Comment


andrea guatteo
andrea guatteo
5 giorni fa

Come al solito una recensione Top!!!

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