Un'esperienza sensoriale, immersiva, psichedelica, fino a diventare catartica, quella di Mfoku, il secondo disco del compositore Simone Faraci, uscito il 26 maggio.
L'album si compone di 7 brani, che sembrano raccontare una storia d'amore e di dolore al di là del tempo e dello spazio, in cui un loop continuo di suoni e rumori manifestano il senso della vita nel continuo oscillare tra la bellezza del vivere i rapporti umani e la fragilità e la facilità con la quale gli stessi si possono distruggere, portandoci al dolore, alla noia, fino alla completa apatia.
Attraverso l'uso sperimentale dei suoni in un modo del tutto fuori dagli schemi e senza un canone prestabilito se non quello dell'imprevedibilità, Simone Faraci ci mette di fronte agli stati d'animo più profondi dell'essere umano e delle sue ferite nascoste.
A livello strumentale, quella sensazione di essere in un universo parallelo, dove tempo e spazio non esistono, si traduce grazie ai suoni elettronici (Synth, batteria, live electonics, pranayama etc...), rumori di oggetti quotidiani registrati o di Reels presi direttamente da Instagram.
Di dove sei e come la tua città ti ha influenzato artisticamente?
Sono nato a Caltanissetta nell’entroterra siciliano. Caltanissetta è una città di provincia sonnolenta dove c’è poca attività culturale, ma forse proprio questo mi ha spinto a cercare dell’altro, a studiare a immaginare. Da 15 anni vivo a Bologna che considero oggi la mia città, che mi ha dato tantissimo in termini culturali e di formazione
Raccontaci il tuo percorso artistico dalle origini fino ad oggi.
Ho iniziato a studiare musica da molto piccolo e a 10 anni mi sono iscritto in conservatorio per studiare pianoforte. A Bologna ho proseguito gli studi in composizione e poi musica elettronica. Da adolescente ho iniziato a suonare in diversi gruppi di rock progressivo in sicilia, poi a bologna ho fatto diverse esperienze nella musica di improvvisazione.
Come ti sei avvicinato alla musica elettronica e perché?
La cosa che mi ha sempre attirato è la possibilità che ti offrono le tecnologie del suono di modellare il suono come una materia malleabile. Ho cominciato sin da ragazzo a sperimentare con il computer, da auto-didatta, e a 18 anni i miei mi regalarono il mio primo sintetizzatore.
Che significato ha il titolo Toku?
Tutti i titoli del disco sono ispirati in qualche modo al dialetto siciliano, ma non hanno un vero e proprio significato rispetto al senso del brano.
- Come ti è venuta in mente l’idea di assemblare le varie sonorità derivanti dai reels di Instagram?
Toku non è il primo brano in cui esploro questo materiale sonoro: già nel mio primo disco Echo ex Machina (2021, Slowth Records) il brano d’apertura Scroll macabre è composto interamente da materiali provenienti da reel di instagram. In questi lavori ho voluto rappresentare la bulimia sonora in cui ci troviamo immersi, e lo scrolling dei reels mi pare sia uno degli esempi più eclatanti di come ci sia poca cura per il paesaggio sonoro in cui viviamo. Reel dopo reel, scrollando potenzialmente all’infinito, ci ritroviamo invasi senza tregua da voci e suoni.
Secondo te che significati veicolano questi frammenti sonori nella nostra società? Perché hanno così influenza sulle persone?
Quello che ho provato a fare in Toku e anche in Scroll macabre, è proprio quello di ricostruire un senso da tutti questi frammenti. Io credo che dicano molto sulla nostra società, soprattutto sul modo in cui ci relazioniamo con gli altri e sull’immagine di noi che vogliamo proiettare all’esterno. Credo che la voce giochi un ruolo molto importante in questo, ed è molto interessante in Toku specialmente, ascoltare le modalità di emissione vocale che sono quasi sempre molto perentorie.
Spiegaci la scelta del testo di Kafka alla fine del tuo brano.
Il testo di Kafka che ho scelto, e che Valeria Girelli ha interpretato magistralmente, parla proprio della voce, di una voce che arriva da lontano attraverso un apparecchio telefonico. E Mi sembrava molto appropriata!
Il coro che determina un cambio di registro del brano da quale fonte proviene?
Sono dei campionamenti di un brano per voci bianche del compositore inglese Benjamin Britten.
Hai mai eseguito una performance live? Come si struttura?
Ho di recente formato un quartetto con cui abbiamo anche fatto un concerto a Bologna e attualmente stiamo programmando dei concerti per la primavera. Dal vivo il disco assume una forma molto diversa e si aprono spazi per l’improvvisazione. I brani vengono quasi re-interpretati e ricostruiti dal vivo nei loro elementi principali.
Descrivici cosa volevi comunicare con l’illustrazione della copertina del disco.
La copertina, realizzata dall’illustratore Valerio Immordino, è un’immagine che non vuole rappresentare qualcosa di specifico ma vuole rendere l’idea di un qualcosa che contiene una grande energia potenziale ma che non è ancora del tutto visibile. L’ispirazione ci è venuta da un bellissimo scoglio dell’isola di Salina, che aveva una forma vagamente simile a quella di una fiamma.
Descrivici l’iter che ti ha portato a comporre tutto il disco e ad intitolarlo mfoku. Che psicologia e filosofia c’è dietro e come l’hai tradotto a livello strumentale/musicale?
L’idea iniziale era quella di fare un lavoro in cui l’elemento del ritmo fosse centrale. Piano piano, riflettendo sul concetto di ritmo, che è un concetto che comprende l’idea della ripetizione di uno o più elementi nel tempo, è diventato un lavoro sul tempo dell’ascolto e sulla memoria. L’idea di ripetizione mi ha portato anche a riflettere sulla prevedibilità dei percorsi che una musica può prendere e a come renderli imprevedibili. In generale il disco rappresenta una riflessione sul modo in cui sta cambiando il modo di ascoltare nella nostra cultura, immersione siamo in un paesaggio sonoro che sembra fare da specchio all’angoscia pervasiva causata dalla frammentazione del tempo delle nostre vite.
Quando ho pensato a che tipo di sound avrei voluto per il disco, ho immaginato subito di voler lavorare con un batterista, e la scelta è caduta su Donato Emma batterista che conosco da tantissimi anni, un grandissimo professionista che lavora nel mondo del pop. Ho poi campionato le potenti chitarre elettriche di Michele Cigna, musicista e sound engineer di base ad Amsterdam, perché volevo ritrovare un legame con le mie origini nel rock progressivo.
- Indicaci i tuoi profili social.
Il social che uso di più è Instagram, mi trovate come @simone__faraci
- Mandaci i tuoi saluti.
Un caro saluto a voi e a tutti i vostri lettori! Grazie dell’intervista!
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