A diciannove anni di distanza dall'ultimo capitolo della sua carriera solista, lo scorso Venerdì, Bruce Dickinson, il leggendario ed amatissimo frontman degli Iron Maiden, ha pubblicato il tanto atteso "The Mandrake Project".
Come sempre, più alte sono le aspettative e maggiore è il rischio di rimanere delusi ma, per fortuna, in questo caso non è stato così! Intendiamoci, non è certo un masterpiece ma è comunque un disco validissimo, soprattutto se si abbandona l'idea del "tutto e subito" tanto di moda ai giorni nostri e ci si concede il lusso di assimilarlo gradualmente, di ascoltarlo almeno un paio di volte prima di emettere qualsivoglia giudizio che, per chi scrive, si traduce in un 7.5.
Bruce Dickinson ha un vantaggio: non deve dimostrare più nulla a nessuno!
Ha 65 anni e canta ancora durante i live nella tonalità originale (credetemi, non ce ne sono tanti), è un'icona del Metal, è il frontman di una delle band più amate al mondo, è pilota di aerei, è schermidore, scrittore e imprenditore brassicolo, insomma, per farla breve, non ha certo bisogno di elemosinare consensi attraverso un suo disco solista ed è per questo che in questa sua ultima fatica fa tutto ciò che gli piace e che, evidentemente, non gli è concesso con i Maiden dal momento che Steve Harris, fondatore e "padre padrone" del gruppo non è certo famoso per le sue doti di accondiscendenza ed apertura verso nuove sonorità.
Il disco, concepito come un concept album a sfondo esoterico, spazia lungo tutta la carriera solista di Dickinson abbracciando sia l'Hard Rock del suo esordio che la sperimentazione contenuta nei suoi lavori successivi fino a ritornare al metal classico ed alla teatralità del suo album precedente.
L'ascolto parte con " Afterglow of Ragnarok", che è stato anche il primo singolo estratto, pezzo dalle sonorità heavy che sembra arrivare direttamente dagli anni '90 e che sarà sicuramente un baluardo delle sessioni live del prossimo tour, il brano è ben costruito e la prestazione vocale è ottima, forse troppo... Non era necessario spingere così tanto ma, forse, voleva dimostrarci una volta di più di essere un super cantante.
Si prosegue con l'Hard Rock di "Many doors to hell" , pezzo non trascendentale ma comunque accettabile, e si arriva al secondo singolo estratto, "Rain on the Graves", brano piuttosto cupo che, probabilmente, non scalderà i cuori dei fan dei Maiden a causa di un sound molto compresso ma che comunque ci regala un Bruce in gran forma anche in veste di attore...
L'ascolto prosegue con "Resurrection Men" , brano complesso e abbastanza ben confezionato,
"Fingers in the Wounds" , il pezzo più sinfonico dell'album ed "Eternity has Failed" che, a differenza della sua genitrice "If Eternity Should Fail", sembra perfetta per fare da tema portante ad una colonna sonora da western movie.
La settima traccia è "Mistress of Mercy", forse il brano più arioso, maideniano e melodicamente interessante dell'album
La tracklist prosegue con "Face in the Mirror", una ballata a mio avviso del tutto trascurabile se non fosse per la presenza di un assolo di chitarra di Bruce...
Per fortuna a questo punto entra in scena un'altra ballata, decisamente migliore della precedente, una ballata da 9 in pagella, "Shadows of the Gods", un brivido continuo a partire dall'intro di pianoforte e chitarra per arrivare ad una prestazione interpretativa evocativa ed emozionante di un Dickinson ispiratissimo e supportato da passaggi tastieristici davvero azzeccati... Sette minuti ed un secondo di grande musica
A questo punto si poteva chiudere o, al massimo, alzare un filo l'asticella mettendoci una vera bordata e, invece, l'ultimo pezzo è una suite di circa dieci minuti di cui si poteva anche fare a meno, "Sonata (Immortal Beloved)".
L'attesa non è stata tradita, il disco è davvero valido e le canzoni saranno ancor più apprezzate nei live anche se avrei preferito una seconda parte dell'album un po' più coraggiosa e movimentata, ma tant'è, Bruce ci accompagna da quarant'anni ed è ormai come quell'amico su cui sai di poter sempre contare.
Buon ascolto
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